lunedì 23 febbraio 2009

GRANDI INFRASTRUTTURE DI CRISI

Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta

Posti di fronte alle conseguenze determinate dalla crisi economica che sta generando una sempre più pesante recessione, il crollo dell’occupazione ed il ridimensionamento dei fatturati delle imprese, tutti i governi, simili ai cerusici di un tempo, stanno tentando di spacciare come miracolosi una serie di rimedi che anziché salvare il “paziente” potrebbero sortire come unica conseguenza quella di aggravare ulteriormente lo stato della malattia. Unitamente al finanziamento (spesso a fondo perduto) di banche ed aziende private, attraverso cospicue iniezioni di denaro pubblico direttamente nelle loro casse, un’altra delle “cure” maggiormente gradita tanto alla politica quanto all’imprenditoria sembra essere costituita dall’investimento di enormi quantità di denaro dei contribuenti, per la costruzione di grandi infrastrutture.

In Italia, Silvio Berlusconi, distintosi in questi giorni per le proprie invettive contro il “fanatismo ambientalista”nel corso di un’intervista al quotidiano francese Le Figaro, durante la quale ha promesso la realizzazione in tempi brevi del TAV Torino - Lione, sembra avere inserito la costruzione delle grandi infrastrutture fra le misure prioritarie attraverso le quali combattere la crisi economica. Già lo scorso 9 febbraio in occasione dell’inaugurazione del passante di Mestre, lo stesso Berlusconi aveva infatti promesso uno stanziamento per la costruzione di grandi opere pari a 16.6 miliardi di euro, facente parte di un investimento complessivo di 125 miliardi di euro che il governo intenderebbe stanziare per realizzare oltre 100 grandi infrastrutture. Grandi opere che spaziano dal ponte sullo Stretto di Messina, ritenuto prioritario dal cavaliere, alla costruzione di nuove tratte TAV, di nuove autostrade, centrali nucleari, rigassificatori, centrali a carbone e turbogas, inceneritori e molte altre infrastrutture cementizie. Lo scopo dell’investimento, oltre alla riduzione del gap che ci separerebbe dagli altri paesi europei, sarebbe nelle intenzioni del Cavaliere quello di risollevare le sorti della disastrata economia italiana e creare nuova occupazione per fare fronte alla continua emorragia di posti di lavoro.

Non si può naturalmente evitare di domandarsi in funzione di quale cortocircuito logico si arrivi a ritenere che la decisione di destinare una così ingente quantità di risorse economiche pubbliche (con il conseguente appesantimento del debito pubblico del paese) alla costruzione di grandi infrastrutture di dubbia utilità, possa costituire un elemento in grado di rilanciare la nostra economia. Tanto meno alla luce delle ultime manovre finanziarie che hanno “tagliato” i finanziamenti a settori nevralgici e ad alta incidenza occupazionale come la salute e l’istruzione. Occupazione e grandi opere non sono infatti mai state in sintonia, dal momento che i miliardi investiti in grandi infrastrutture risultano in assoluto quelli in grado d’ingenerare la minore ricaduta in termini occupazionali. A questo riguardo ritengo oltremodo interessante osservare l’opinione del prof. Marco Ponti, esperto di fama mondiale che certo non può essere tacciato di simpatie ambientaliste o posizioni di contrarietà nei confronti del progresso. Marco Ponti ad una mia precisa domanda nell’ambito di un'intervista sul tema dell'alta velocità ferroviaria :

I promotori dell’Alta velocità (sia pubblici che privati) affermano che la costruzione delle nuove tratte può costituire un volano in grado d’incrementare l’occupazione all’interno dei territori attraversati dai progetti. Davvero la costruzione di grandi infrastrutture, è in grado di creare “posti di lavoro” in ambito locale? E la prospettiva occupazionale le sembra in grado di giustificare l’investimento di decine di miliardi di euro di denaro pubblico in grandi infrastrutture come il TAV?

Rispondeva per inciso:

Questo argomento appare davvero debolissimo. Si tratta di opere ad alta intensità di capitale, non di lavoro (basta visitare un cantiere della TAV). Ma soprattutto, il confronto va fatto con spesa pubblica in altri settori, per loro natura ad alta intensità di lavoro, come l’assistenza agli anziani, o il recupero edilizio ecc. Inoltre si tratta di occupazione temporanea, con forti picchi, che poi scompare alla chiusura dei cantieri, con tutte le conseguenze sociali che questo comporta. Il motivo vero sembra essere invece quello di trasferire soldi pubblici all’industria italiana, visto che negli appalti la concorrenza funziona pochissimo.

Anche di fronte alla gravissima crisi economica che sta mettendo a repentaglio in primo luogo la sopravvivenza economica delle famiglie italiane, la politica si manifesta dunque totalmente incapace di operare qualsiasi riflessione avente per oggetto il modello di sviluppo della crescita infinita che ci ha condotti ormai ben oltre la soglia del baratro, preoccupandosi esclusivamente di sfruttare questa “opportunità” per elargire sotto svariate forme ogni genere di prebenda alla grande finanza e alla grande imprenditoria.

mercoledì 18 febbraio 2009

IL GRANDE SFASCIO DEL PARTITO OMBRA


Marco Cedolin
Le dimissioni di Walter Veltroni che dopo 16 mesi abbandona la guida del PD, all’indomani della cocente sconfitta nelle elezioni regionali in Sardegna, rappresentano per molti versi il terminale inevitabile di una pessima operazione di “marketing politico”, iniziata con l’ormai famoso discorso d’investitura tenuto al Lingotto di Torino e naufragata mese dopo mese, elezione dopo elezione, fino ai disastrosi risultati che sono ormai sotto agli occhi di tutti.

Il totale sfascio di un progetto politico come quello del PD si presta naturalmente a molte chiavi di lettura e per forza di cose non può essere attribuito unicamente alla leadership di Veltroni, così come alla notoria propensione ad accapigliarsi fra loro manifestata dalle molteplici correnti del partito. Senza dubbio Veltroni non ha mai dato l’impressione di avere il carisma e l’autorità necessaria per guidare una formazione politica scarsamente omogenea e perennemente in balia delle lotte di potere, ma l’intera “operazione PD” è parsa fin da subito una scommessa persa, nata con tutta probabilità proprio al fine di creare i presupposti della sconfitta.

Il PD fin dal momento delle primarie farsa, create per eleggere un segretario già eletto da tempo, è sempre stato un partito ombra. Un partito impegnato a scimmiottare ora Berlusconi, ora il modello americano, totalmente incapace di assumere delle posizioni politiche alternative rispetto a quelle del proprio avversario. Un partito con la velleità di essere vicino ai lavoratori, ma anche a Confindustria, amico dell’ambiente ma anche dei cementificatori, difensore dei giudici ma anche di chi attacca i giudici, preoccupato per gli italiani che non arrivano a fine mese ma anche per gli interessi di chi costruisce profitto sulle loro spalle, favorevole alla pace ma anche alle missioni di guerra. Tutto ed il contrario di tutto, all’interno di un minestrone proposto sulle note orecchiabili di “Yes we can” e totalmente privo di contenuti, appiattito sugli intoccabili dogmi del neoliberismo, arrancando sul terreno di Berlusconi per ritrovarsi, come un’ombra, sempre un metro indietro rispetto al proprio avversario.

Dopo le elezioni e la sconfitta elettorale il PD ha continuato la propria parabola discendente anche all’interno del Parlamento, manifestandosi completamente incapace di abbozzare una qualche forma di opposizione e finendo per calarsi ogni giorno di più nel ruolo di partito ombra della maggioranza, funzionale a validare le scelte, spesso scellerate, portate avanti dall’esecutivo. Mai durante quasi un anno il partito di Veltroni è stato pervaso da un qualche moto di orgoglio, mai è riuscito a trovare argomenti per contrastare l’azione del governo che prescindessero dalla sterile diatriba di facciata, mai ha tentato di farsi interprete del profondo malessere che attraversa larga parte dell’opinione pubblica. Perfino Antonio Di Pietro, la posizione del cui partito è da sempre allineata con gli interessi dei poteri forti, grazie all’ombra esercitata dal PD, ha trovato il modo di emergere in parlamento come l'unico partito di opposizione, dal momento che anche qualche svogliato mugugno finisce per sembrare un urlo qualora proferito nel silenzio più assoluto.

Proprio il silenzio, carico di condiscendenza, e l’incapacità di fare opposizione nei confronti di un governo con il quale condivide larga parte del proprio programma, hanno determinato la continua emorragia di consensi che ha portato il PD alle dimissioni del suo segretario pochi mesi prima dell’appuntamento con le elezioni europee ed amministrative. Elezioni che con tutta probabilità vedranno il consenso del PD in caduta libera, dimostrando il totale fallimento di un’operazione di marketing politico che ha generato una “creatura” incapace sia di governare che di fare opposizione e pertanto assolutamente priva di qualsiasi utilità.
Berlusconi naturalmente ringrazia e dopo il successo regalatogli da Romano Prodi si appresta a raccogliere anche l’omaggio di Walter, a vincere facile dopo un po’ ci si prende gusto.

mercoledì 4 febbraio 2009

IL PARTITO UNICO BLINDA ANCHE L'EUROPA

Marco Cedolin

La decisione d’introdurre lo sbarramento del 4% anche per quanto concerne le prossime elezioni europee ha ricevuto ieri il via libera della camera con una schiacciante maggioranza forte di 487 si, 29 no e 6 astenuti, incassando anche l’approvazione del Presidente Napolitano, sempre condiscendente con qualsiasi decisione si proponga di smantellare ogni anelito di democrazia.
Il governo “abbronzato” e l’opposizione ombra non hanno in verità faticato molto per trovare un accordo che li mettesse al riparo dalla possibilità che qualche candidato “non allineato” potesse ambire a sbarcare in Europa come accaduto in passato, dimostrando inequivocabilmente per l’ennesima volta come l’intesa fra governo ed “opposizione” risulti sempre perfetta quando si tratta di tutelare gli interessi superiori del partito unico.

Le elezioni "farsa" di aprile, dalle quali è emerso un parlamento privo di sfumature, negando il diritto ad avere una rappresentanza politica parlamentare a quasi il 10% degli italiani che si sono recati alle urne, hanno evidentemente tracciato la strada da perseguire in futuro per ottenere il risultato voluto. Il fatto che alle elezioni europee qualunque piccolo (o nuovo) partito, pur presentandosi da solo, potesse ambire a fare eleggere un proprio candidato, contrastava nettamente con le velleità di Veltroni e Berlusconi, intenzionati ad “americanizzare” il sistema politico italiano, eliminando i partiti minori e scongiurando la possibile nascita di qualsiasi nuova formazione politica.
La scelta dello sbarramento al 4% applicata anche alle elezioni europee, sostenuta da Napolitano che ha affermato di considerare la frammentazione (in questo caso trattasi di pluralità di pensiero) un “disvalore”, costringerà di fatto tutti i piccoli partiti ad eliminare le proprie peculiarità, appiattendosi su una delle due facce di Veltrusconi, avendo come unica alternativa la morte lenta determinata dall’impossibilità di dare rappresentanza ai voti ottenuti dai propri elettori.

Nonostante un gruppo di ex parlamentari abbia protestato durante la votazione alla camera lanciando volantini prima di essere allontanato dall’aula ed alcuni partiti minori da tempo esprimano contrarietà nei confronti della scelta di estendere lo sbarramento, sostanzialmente la notizia non ha suscitato grande clamore nell’opinione pubblica. Lo scarso spazio volutamente dato dall’informazione all’argomento e la martellante propaganda “istituzionale” mirata a presentare valori positivi quali la pluralità di pensiero e l’espressione democratica nell’accezione negativa di una “temibile” frammentazione, hanno fatto il paio con la distanza siderale che ormai divide i cittadini dalla politica, favorendo di fatto il disegno autoreferenziale del partito unico che la votazione di oggi ha portato drammaticamente a compimento.