venerdì 19 settembre 2008

UN DUE TRE TUTTI GIU' PER TERRA

Marco Cedolin

All’inizio degli anni 90 toccò agli operai, quando sull’onda della “storica” marcia dei 40.000 colletti bianchi di Torino venne soppressa la scala mobile ed un’intera categoria di lavoratori iniziò a perdere i propri diritti acquisiti nel tempo, mentre la altre categorie plaudivano il ridimensionamento dei troppi privilegi di cui si riteneva gli operai godessero.
Qualche anno dopo fu la volta dei piccoli commercianti, costretti al fallimento a decine di migliaia, per creare spazio ai nuovi potentati della grande distribuzione. Piccoli commercianti spacciati dalla politica come il vero male del Paese e additati dalle altre categorie come evasori fiscali, ladri e truffatori la cui sparizione avrebbe reso più ricca la nostra economia.
Alla fine degli anni 90 fu il turno dei precari, creati dalla legge Treu e condannati a vita dalla Riforma Biagi. Lavoratori in affitto, come le vetture di un autonoleggio, privati di qualsiasi diritto e qualsiasi prospettiva, con la compiacenza di tutto il mondo sindacale e l’acquiescenza dei lavoratori a tempo indeterminato che ritennero si trattasse di un sacrificio indispensabile a creare la giusta flessibilità che potesse sostenere la crescita economica.
Un paio di anni fa venne il momento dei tassisti, assaliti lancia in resta dal ministro Bersani che nella sacra battaglia contro i privilegi si era affrettato ad identificare la categoria che più di ogni altra meritava di essere morigerata, mentre gli altri lavoratori mostravano soddisfazione per la “ricca” ed antipatica corporazione che sarebbe stata ridimensionata.
La scorsa estate è toccato ai dipendenti statali, milioni e milioni di assenteisti, impostori e malati immaginari che hanno fatto grande (impresa ai limiti dell’impossibile) il ministro Brunetta, ertosi a giustiziere di quella che le altre categorie di lavoratori si sono limitati a liquidare come una casta di inetti imbottita di privilegi.
Negli ultimi giorni è stata la volta dei dipendenti di Alitalia, privilegiati fra i privilegiati, che in quanto tali avrebbero dovuto accettare ogni genere di accordo, non fosse altro per espiare tutte le colpe accumulate in decenni di privilegi. I 18.000 dipendenti Alitalia hanno inspiegabilmente puntato i piedi, come un bambino viziato, e pertanto sarà loro e solamente loro la colpa del fallimento della compagnia di bandiera italiana e di tutte le catastrofiche conseguenze che verranno.

Nel disfacimento del mondo del lavoro intervenuto nel corso degli ultimi venti anni si possono apprezzare ovviamente molte sfumature. Non sono mancati gli operai che (soprattutto negli anni 70) approfittavano dei propri privilegi, i piccoli commercianti che evadevano le tasse, i dipendenti statali assenteisti, i piloti Alitalia con stipendi da nababbi, ma la classe dirigente del Paese non è mai stata interessata a normalizzare le situazioni limite, al contrario ha ritenuto utile sfruttarle per “criminalizzare” ad una ad una tutte le categorie dei lavoratori al fine di giustificare il progressivo esproprio dei diritti e l’altrettanto progressivo ridimensionamento dei salari il cui potere di acquisto risulta essere oggi fra i più bassi d’Europa.
Il gioco al massacro praticato selettivamente, secondo la logica del dividi et impera, ha prodotto la palude nella quale oggi tutti i lavoratori delle categorie retributive medie e basse si ritrovano immersi fino al collo. Una palude fatta di salari asfittici, mobbing, lavoro precario, ricatti, licenziamenti, paura del futuro e rassegnazione.
Tutto ciò mentre, per una strana ironia del destino, le categorie ad elevata retribuzione quali politici, grandi industriali, finanzieri, banchieri, petrolieri, grandi imprenditori, alti dirigenti, funzionari di rango, attori, calciatori, cantanti, personaggi della TV, ma anche notai, avvocati, dentisti, architetti e molti altri, hanno continuato durante gli ultimi due decenni ad incrementare i propri profitti e la quantità dei veri privilegi di cui essi soli evidentemente hanno diritto ad essere depositari, senza che la cosa crei alcun problema agli equilibri economici del Paese.

2 commenti:

Giusi ha detto...

ormai siamo alla frutta. Il gande crac Lehrmann conferma che il capitalismo selvaggio è al capolinea e non credo che si possano pensare a soluzioni: troppo tardi. Questo cataclisma socio-economico travolgerà anche le "grandi" maestranze di cui lei ha parlato alla fine dl post. Siamo al punto di non ritorno dell'occidente.

marco cedolin ha detto...

Ciao Giusi,
penso anche io che il capitalismo selvaggio sia al capolinea. Non tanto a causa del crac delle banche che potrà probabilmente venire equilibrato attraverso alchimie assortite dal momento che si tratta di denaro virtuale, bensì per il fatto che il turbocapitalismo e la crescita infinita hanno di fronte a sè due ostacoli di fatto insormontabili.
Il primo è costituito dai limiti fisici del pianeta, le cui risorse non possono ormai più sorreggere questo tipo di crescita.
Il secondo è costituito dai ceti medi e medio bassi (la stragrande maggioranza delle persone) che continuano ad impoverirsi e non sono più in grado di supportare l'incremento dei consumi.

Il crollo purtroppo non sarà indolore e le conseguenze rischieranno di essere drammatiche dal momento che la maggior parte degli abitanti dell'occidente non sono più in grado di autoprodurre nulla e per sopravvivere dipendono al 100% dal denaro e conseguentemente da un lavoro che consenta loro di procurarselo.