martedì 6 novembre 2007

ECOLOGIA PUBBLICITARIA

Marco Cedolin

L’ultimo rapporto IPCC concernente i cambiamenti climatici ha impietosamente messo in luce lo stato di grave malattia in cui versa il nostro pianeta, devastato pesantemente da oltre 50 anni di pratica sviluppista, passati ad inseguire il miraggio della crescita infinita. Non tutti gli scienziati sono concordi nel definire l’entità dell’effetto serra o nel determinare l’esatto ritmo di crescita delle temperature nei decenni a venire, ma al di là di ogni ragionevole dubbio si palesa l’evidenza che esiste un grosso problema al quale occorre porre rimedio in tempi brevi, prima che i processi degenerativi divengano irreversibili.
Sarebbe stato logico attendersi come prima reazione che venisse messo in discussione proprio quel modello di sviluppo ispirato alla crescita che ha ingenerato il problema, ma logica e raziocinio quasi sempre latitano quando ci si trova di fronte ai grandi interessi economici. Così i “sacerdoti del progresso” ormai impossibilitati a negare i risultati catastrofici del loro operato hanno intuito come anche il peggiore dei problemi possa diventare la migliore delle opportunità qualora gestito a proprio uso e consumo e quale occasione potrebbe essere migliore di questa per coniugare crescita dei consumi e crescita “ecologica” in un’ottica d’incremento del loro tornaconto?

La macchina pubblicitaria ed i pennivendoli di ogni razza e colore hanno immediatamente assimilato per osmosi l’importanza del business ecologico e la salvaguardia ambientale è ormai diventata il motivo principe usato ed abusato per sponsorizzare non solo prodotti e servizi ma anche provvedimenti legislativi e scelte politiche.
Un colosso petrolifero come l’ENI, responsabile di alcuni fra i più gravi casi di inquinamento ambientale nel nostro paese, si presenta in TV con uno spot che lo rende simile a un’associazione ambientalista e si prodiga per mezzo dell’amministratore delegato Paolo Scaroni nel redigere una lista di 24 “comportamenti virtuosi” da suggerire ai cittadini, quasi fossero loro i veri responsabili della catastrofica situazione attuale.
L’ENEL sui teleschermi e sulle pagine dei giornali si è trasformata in un vero e proprio pilastro della pratica ecologica, vanta meriti immaginari e dispensa consigli di ogni tipo al cittadino inquinatore, come farebbe una buona mamma con il figlioletto scapestrato.
Le case automobilistiche pubblicizzano automobili che nuotano come delfini, costruiscono rapporti simbiotici con la natura, germogliano come piante e si colorano come vasi di fiori.
Le banche e le assicurazioni si specchiano dentro a didascalie di prati verdi e cieli tersi, con bambini che corrono incontro ad un futuro bucolico e durante lo spot ci si sorprende a trattenere il fiato per la paura che da un momento all’altro si squarci la didascalia e faccia capolino la realtà rappresentata dal camino di un inceneritore.
Dalle pompe dei distributori fluiscono gasolio pulito e benzina così verde e profumata da fare invidia ad una foresta di conifere. L’acqua minerale sgorga fra montagne incontaminate, pronta ad arrivare in tavola per mezzo del teletrasporto, anziché dopo viaggi infiniti di centinaia di chilometri nel cassone dei TIR sotto il sole cocente. Il latte e la carne provengono da allevamenti dove le mucche pasteggiano allegramente su prati verde smeraldo, le merendine nascono fra campi di grano dorati con le spighe appena mosse dal vento, prodotti di ogni genere manifestano una valenza ecologica mai immaginata prima che contribuisce a renderli indispensabili per il bene dell’umanità.
Perfino le scuderie della Formula Uno si apprestano a proporsi come sponsor dell’ecologia, dipingendo sui propri bolidi distese oceaniche, prati verdeggianti e cieli blu cobalto solcati da bianchi cumuli di panna montata. I marchi che vendono prodotti per i capelli li sponsorizzano come una panacea all’inaridimento delle chiome conseguente all’effetto serra e le aziende di abbigliamento stanno iniziando a proporre collezioni “ecologiche” imperniate sull’uso di tessuti a basso impatto ambientale, quando non addirittura abiti che sono in grado di preservare chi li indossa dagli effetti deleteri dell’inquinamento sulla salute umana.

Anche la politica si è prontamente adeguata al nuovo trend, coniando ossimori tanto fascinosi quanto improbabili. Sviluppo sostenibile, chimica verde, megainceneritori puliti, ecologia industriale, economia solidale, globalizzazione dal volto umano, guerra pulita, crescita verde, sono solo alcune delle esternazioni prive di senso compiuto che infarciscono i discorsi degli uomini politici di ogni schieramento. In contiguità con il non sense delle parole anche nelle decisioni fattive, grandi opere ad alto impatto ambientale come il TAV, i megainceneritori, le centrali a carbone e turbogas, il Mose, vengono proposte dalla politica come interventi ecologicamente migliorativi.

Si percepisce nettamente la sensazione che quello della valenza ecologica sia soltanto un astuto escamotage usato per veicolare in maniera “virtuosa” quella crescita dei consumi che alla luce delle conclusioni degli scienziati sarebbe altrimenti improponibile. Nel nome dell’ecologia si sta dunque continuando a distruggere l’ambiente, ma lo si distrugge affermando che si sta tentando di salvarlo e per qualche decennio il business dovrebbe essere assicurato, poi si vedrà, sarà comunque sempre possibile addossare ogni colpa agli atteggiamenti dissennati dei cittadini e ricominciare daccapo, magari praticando la lottizzazione del sottosuolo, dove grazie alla tecnologia sarà probabilmente ancora possibile vivere in un’atmosfera controllata.

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